L’apertura del fronte italiano comportò il secondo tragico sviluppo dell’esperienza di guerra dei trentini. Lo sfollamento della popolazione ebbe inizio poco dopo l’entrata in guerra dell’Italia, nel maggio del 1915. Gran parte del Trentino sarebbe divenuto zona di guerra e quindi doveva essere sgomberato dai civili. Gli storici sono concordi nell’affermare che l’esodo interessò circa 75.000 trentini. Le destinazioni principali furono: Moravia, Boemia e Austria settentrionale e meridionale, un territorio venti volte più esteso dell’attuale Trentino. Gli sfollati furono segnati dallo stigma della separazione: dal proprio territorio, dalla famiglia, dalla memoria. (1) L’ordine di evacuazione per i paesi della Val di Gresta (2370 abitanti in totale) fu emanato alle ore 16 del 22 maggio 1915 e doveva essere eseguito nelle ventiquattro ore successive.
Al momento dello sgombero si presentarono dei gendarmi che, con l’aiuto di un interprete, intimavano di abbandonare i paesi per riunirsi a Castellano. Il caso volle che quel giorno piovesse, rendendo così la partenza più difficoltosa. Il decreto fu poi ridimensionato e la cittadinanza dovette scendere solo fino a Loppio. Ogni persona avrebbe dovuto portare con sé un bagaglio non superiore ai cinque kg, fu assicurato che il rientro sarebbe avvenuto dopo pochi mesi. Il mobilio, la biancheria, gli attrezzi da lavoro e alcuni viveri furono nascosti nelle cantine, senza troppa cura. Luigi Gentile, abitante di Valle San Felice, ricorda che nessuno si curò di nascondere i gioielli e le altre cose preziose perché era convinzione diffusa che i militari non avrebbero preso nulla. Fu concesso l’uso di carri per trasportare gli ammalati. Le famiglie che avevano mucche, capre, vitelli furono obbligate ad affidarli alle autorità.(2) Gli abitanti di Ronzo-Chienis furono incaricati di consegnare gli animali degli sfollati della valle ai militari e di raccogliere il grano maturo, per questo restarono qualche mese in più nelle loro case. Ultimati i loro compiti, raggiunsero anche loro il resto degli abitanti. In valle rimasero per tutta la guerra una decina di militarizzati e alcuni clandestini. A due uomini fu ordinato ufficialmente di non andarsene: Luigi Gobbi dei Fiavéi fu indicato come fiduciario della valle e Massimo Ferrari come panettiere fu trattenuto a Ronzo per sfamare le truppe austriache. Gli anziani ricordano di alcune famiglie che rimasero, anche senza permesso, sul territorio della Valle, vivendo alla macchia nei boschi. A Pannone, ad esempio, i “Dolzi” e un’altra famiglia si trattennero nei pressi dell’abitato e gli altri concittadini affidarono loro i pochi averi che possedevano.
Le famiglie più benestanti come i Maini di Pannone, preferirono emigrare in Italia, dove potevano sperare in condizioni più dignitose.
Gli abitanti di Pannone, Manzano e Nomesino alloggiarono per un breve periodo presso i comuni non ancora evacuati del Distretto di Villa Lagarina. Nel mese di agosto ai grestani fu consentito per quattro volte di ritornare ai loro paesi. La distruzione era sempre più diffusa: alle case mancavano i pavimenti, le ringhiere e i bronzi delle chiese furono usati per scopi militari. Questo provocò un forte dolore a chi ritornò a salutare il proprio paese, così la gente partì inquieta. Significative sono anche le memorie di Teresa Armani che, il giorno dell’evacuazione, stava ritornando a Pannone da Rovereto, dove serviva una famiglia. Giunta a Loppio, le guardie la informarono che tutti gli abitanti erano partiti e a lei toccò prendere l’ultimo treno, destinazione Boemia.
Nella piccola realtà grestana possiamo rintracciare tutti i tipi di emigrazione che sono stati riscontrati in Trentino: chi è partito verso altre regioni dell’impero asburgico, chi è rimasto in loco, chi in alcuni paesi vicini e chi è andato in Italia. Patone, Castellano, Nave San Felice, Pomarolo, Trento, Noarna, Villagarina, Nogaredo e Chiusole sono gli abitati limitrofi che hanno ospitato una minoranza di valligiani, prevalentemente di Manzano, Nomesino e Chienis.(3)
L’impatto psicologico di questo esodo coatto fu enorme sia per le persone sia per il territorio. Come riportano D. Leoni e C. Zadra, l’emigrazione fu doppia: gli uomini dai diciotto ai cinquanta anni mandati a combattere; le famiglie trasferite nelle provincie centrali dell’Impero, le abitazioni, i campi e il lavoro abbandonati. Molte persone non si erano mai spostate dal loro luogo di nascita, conoscevano solo i paesi vicini e i nomi di alcune città, si trovarono quindi spinte verso l’ignoto.(4)
(1) Leoni D., Regioni di confine: il caso trentino, in La prima guerra mondiale, Torino, Einaudi, 2006, vol. 2, pp.101-111
(2) Leoni D. e Zadra C. (a cura di), La città di legno. Profughi trentini in Austria 1915-1918, Trento, Editrice
Temi, 1995, p.31.
(3) Biblioteca Comunale, Rovereto, Archivio Storico, da MS 43.1 a MS.43.20.
(4) Leoni D. e Zadra C., Le città di legno, Profughi trentini in Austria 1915-1918, Trento, Editrice Temi, 1995, p.33.