A guerra finita, fu stilato un prospetto sulle condizioni del territorio trentino, furono individuati tre gradi d’intensità della distruzione:
a) Zona bianca: nessun danno rilevante, Alto Adige;
b) Zona grigia: presenti alcuni danni, ma fu concessa l’abitabilità, Trento;
c) Zona nera: la più distrutta, andava dallo Stelvio fino allo Iudrio (fiume friulano).
La condizione dei paesi della Val di Gresta era abbastanza omogenea: le poche case rimaste erano scoperchiate, i campi distrutti dalle trincee, dai reticolati, dai camminamenti e da anni d’incuria e il bestiame andato perduto. La valle fu stravolta non da imponenti azioni militari, ma principalmente dalle opere costruite in previsione dei combattimenti. Ne “la Libertà”1 dell’ 8 giugno 1919 si legge che “ le rupi sono forate, cinte di difese, irte di reticolati. Ogni luogo ha la sua trincea […]. Le tre belle selve di Manzano, di Pannone e di Gardumo sono rovinate, o bruciate, o distrutte. Gli abitati sono parte distrutti completamente, parte danneggiati, nessuno è rimasto intatto. La popolazione si è rifugiata nei pochi locali rimasti in piedi, come poteva”. Un grosso tributo alla guerra fu pagato dagli archivi parrocchiali di Valle San Felice e dalla chiesa di Sant’Agata a Corniano (del 400 circa). Nella foga della partenza i residenti avevano nascosto le cose di valore e la biancheria nelle cantine, ma neanche queste furono risparmiate. Gli abitanti ritornati, sapevano già che avrebbero trovato i loro possedimenti distrutti. L’impatto fu comunque forte: il disfacimento era totale e mancava tutto. Scrive Cecilia Pizzini nel suo diario: “Nell’anni di guerra passati speravo che terminate la guerra si sarebbe contenti ha! Quale triste delussione purtropo non fu così altre croci seguirono”2. Il rientro in Trentino, dopo anni di lontananza fu per tutti uno shock. La valle durante gli anni della guerra era stata affidata a chi non era di lì, a chi non aveva nessun legame con quei luoghi, a militari che non avevano alcun interesse nel rispettare il territorio. Bisogna rilevare che la Val di Gresta aveva, prima della guerra, un’economia abbastanza avanzata rispetto ad una zona simile della penisola italiana. La cooperazione era molto diffusa e la gente investiva in buoni del tesoro, emessi per far fronte alle spese militari, che assicuravano una buona rendita. Quando il Trentino fu annesso al Regno d’Italia, la popolazione si trovò in miseria. Avevano perso tutto: alcuni familiari, le case, gli arredi, i campi erano improduttivi, molti muretti erano caduti a causa dell’incuria e la liquidità era svanita. A chi convertiva le corone in lire, veniva dato circa il 60% del loro valore e l’Italia, come tutti i paesi europei, fu colpita dall’inflazione. Dopo qualche anno la sorte della Valle cambiò: i prodotti agricoli divennero molto richiesti e ben pagati e quindi per alcuni anni la miseria diminuì. A tutto questo va aggiunta la necessità di ricostruire i rapporti sociali, le relazioni famigliari, di continuare nonostante i lutti. I diari rivelano, non fa eccezione quello di Cecilia, un cambiamento nella mentalità, nei comportamenti, nelle condizioni delle persone dopo la guerra. Giuseppe Pizzini, il marito di Cecilia, tornato dalla guerra è un uomo chiuso, senza obiettivi nella vita, invecchiato dalle esperienze passate. Quando la moglie si ammala e, per un po’, non è in grado di amministrare gli affari di famiglia, lui non riesce a sostituirla e sono costretti a vendere gran parte dei loro beni. Cecilia soffre perché ama quell’uomo che ora non riconosce più, durante la guerra ha sognato ogni giorno il momento in cui avrebbero potuto ricominciare a vivere assieme e ora era tutto diverso. “Nelle mente solitaria silenziose ore passo e passai nei giorni festivi acasciata dal dolore vedendo mio marito asiduo frequentatore dell’osteria”3. Quella di Giuseppe è una condizione poco studiata, ma molto diffusa fra i reduci. Abbiamo a disposizione dati statistici che riportano il numero dei deceduti o degli invalidi nella prima guerra mondiale, ma nessuno studio completo è stato compiuto su chi ha sofferto di traumi psicologici o di problemi di alcolismo a causa dell’esperienza bellica. Cecilia afferma di aver provato in ogni modo a distogliere il marito da questi nuovi vizi, l’alcol e il gioco e che, benché non dubiti della bontà e dell’affettuosità del suo compagno, quando si trova al dopolavoro si dimentica di avere una famiglia. La donna è, come sempre, animata da una forte fede “se Iddio mi vuole provare sia fatta la sua volontà”4 e grazie ad essa riesce a sopportare anche questa dura prova. La vita, nonostante tutto, inizia a riprendere, un segno di questo, è la nascita di Cesira il primo agosto 1919, quarta figlia di Cecilia e Giuseppe. Fu chiamata così in ricordo della sorella di Cecilia morta in Moravia. Un ricordo che Cecilia riporta ne “Il mio Diario” è la deposizione dell’immagine della Madonna, rimasta quasi intatta, nella Chiesa, lo interpreta come un segnale di speranza, di buon augurio. L’intervento del genio civile fu diverso di zona in zona, ma in ogni paese fu creata una piazza, elemento estraneo alla conformazione originaria degli abitati, radendo al suolo le case, già danneggiate, attorno ad un punto scelto. A Pannone, dopo lo sventramento, fu costruita via Nuova, le cui case sono fatte di sassi provenienti dal forte, dove si sistemarono gli abitanti che avevano perso le loro dimore. A Valle San Felice le demolizioni furono due: uno per creare la piazza e un’altra in località La Rì. Nuove case furono edificate nei pressi della Chiesa. A Manzano sì effettuò solo la ricostruzione di ciò che era stato distrutto. Le autorità parlavano di “risanamenti”, ma furono dei veri e propri stravolgimenti. Provvisoriamente furono create anche delle baracche, in cui alloggiare i più bisognosi. A Pannone, l’ultima, dove risiedeva una signora povera, fu abbattuta negli anni Cinquanta. La ricostruzione fu affidata dapprima all’esercito, poi subentrarono anche imprese private. Nei paesi arrivavano funzionari italiani, impiegati, la finanza a controllare lo stato delle cose. Ancora nel 1919 nella valle mancavano locali per le scuole, un ufficio postale e non esistevano rifornimenti regolari e rapidi. La guerra non ha risparmiato nemmeno la morfologia della Val di Gresta, stravolta dallo scoppio delle mine e la vegetazione ridotta all’osso. Le montagne avevano cambiato faccia: solcate da chilometri di filo spinato e sezionate da barriere. I rilievi persero la loro sacralità: avevano impiegato milioni di anni a formarsi e in pochi secondi furono distrutti, la lentezza geologica fu spezzata dalla frenesia della guerra.5 Per costruire le opere belliche furono asportate le travi di legno delle case, dismesse le strade e tagliati gran parte dei boschi, per ricostruire quindi bisognava recuperare di nuovo questi materiali. Il numero dei morti e dei dispersi non dà la giusta dimensione del trauma provocato dalla guerra sulla popolazione e sul territorio. I grestani erano partiti da Austriaci per il fronte o come sfollati e, al loro ritorno, erano diventati italiani. I soldati si ritrovarono ad aver combattuto dalla “parte sbagliata”, contro chi oggi li governava. In Val di Gresta, popolata maggiormente da contadini, la politica era considerata un affare lontano, e così fu data poca considerazione al cambio di sovrano, ma questo provocò comunque uno smarrimento generale. I soldati trentini, che a guerra finita ritornarono alla vita civile, “erano uomini “ex”: ex sudditi di un Impero che si era dissolto, ex combattenti di un esercito vinto, ex prigionieri di uno zar che era stato fucilato.”6 Per loro era umanamente difficile sentirsi parte di questo mondo nuovo, che essi, consapevoli o no, avevano combattuto. Il loro inserimento nella vita quotidiana fu difficile sotto molti aspetti: bisognava ricostruire le case, i rapporti umani, fare i conti di chi era tornato e di chi invece era morto in guerra. Il ritorno degli sfollati ai loro paesi d’origine fu un percorso lungo e molto dispendioso di tempo. Solo nella terza relazione (11 febbraio- 30 aprile 1919) scritta dal generale Guglielmo Pecori Giraldi, governatore militare di Trento, si afferma che il rientro dei profughi può considerarsi terminato e che le persone ritornate erano circa 70.000.
(1) Giornale del partito liberale italiano, sezione di Trento.
(2) MsT, Asp, Cecilia Pizzini, Il Mio Diario, p.73.
(3) Ivi, p.74.
(4) Ibidem
(5) Leoni D., Guerra di montagna/ Gebirgskrieg, in La prima guerra mondiale, Torino, Einaudi, 2007, vol.1, pp.237-246.
(6) Antonelli Q., I dimenticati della Grande Guerra, La memoria dei combattenti trentini (1914-1920), Trento, Il margine, 2009.