BIBLIOGRAFIA

ABBREVIAZIONI

Asp – Archivio scrittura popolare
BCR – Biblioteca Comunale Rovereto
MsT – Museo storico Trento

BIBLIOGRAFIA PRIMARIA

1. Fonti a stampa Antonelli Q., I dimenticati della Grande Guerra: la memoria dei combattenti trentini (1914-1920), Trento, Il margine, 2009. Antonelli Q. e Leoni D., Il popolo scomparso. Il Trentino, i Trentini nella prima guerra mondiale, Nicolodi Editore, 2003. Antonelli Q. e Segata A. (a cura di), Kriegsnotizen: la Grande Guerra nei diari dei soldati austriaci, Trento, Museo Storico di Trento, 2004. Antonelli Q., Le scritture popolari di guerra nel Trentino austriaco, in E. Banfi, P. Cordin (a cura di), Scritture di guerra n.5. Benvenuti S., Il Trentino durante la guerra 1915-1918, in La storia del Trentino, Bologna, Il Mulino, 2000-2005, vol. V. Benvenuti S. (a cura di), La Prima guerra mondiale e il Trentino, atti del Convegno Internazionale promosso dal Comprensorio della Vallagarina, Rovereto 25-29 giugno 1978, Arti Grafiche, 1980. Casetti A., Guida storico-archivistica del Trentino, Collana di monografie della società di studi per la Venezia Tridentina, Trento, Temi- Tipografia editrice, 1961. Dalponte L., I bersaglieri tirolesi nel trentino 1915-1918, Trento, Casa Editrice Publilux, 1994. Damin I., Le immagini raccontano la prima guerra mondiale sul fronte Monte Albano-Val di Gresta, “ El campanò de San Giuseppe”, A.24 (2009), pp.13-21. Delaiti F., La grande guerra e la Valle di Gresta, “Studi Trentini di Scienze Storiche”, A. XII (1931), fasc. IV. Fait G. (a cura di), Gli italiani d’Austria e il fronte orientale: uomini popoli culture nella guerra europea (1914-1917), Rovereto, Materiali di Lavoro, Museo Storico Italiano della guerra di Rovereto, 1997, pp.99-102. Fioroni G., La valle di Gresta e la valle del Cameras nella prima guerra Mondiale 1915-1918, Rovereto, Museo Storico Italiano della Guerra, 1988. Gentile E., L’apocalisse della modernità: la grande guerra per l’uomo nuovo, Milano, Mondadori, 2008. Gibelli A., La grande guerra degli italiani: 1915-1918, Milano, Sansoni, 2001. Hecht F., Diario di guerra dal Cadria e dallo Stivo, Trento, Società di Studi Trentini di Scienze Storiche, 1983. Isnenghi M. e Rochart G., La Grande Guerra 1914-1918, Milano, La nuova Italia, 2000. Leoni D., Il silenzio della scrittura, “Materiali di Lavoro”, a.XI n.1 (1991). Leoni D., Guerra di montagna/ Gebirgskrieg, in La prima guerra mondiale, Torino, Einaudi, 2007, vol.1, pp.237-246. Leoni D., Scrivere in guerra. Diari e memorie autobiografiche, per un archivio della scrittura popolare. Seminario nazionale di studio (Rovereto 2-3 ottobre 1987), Mori, Editrice La Grafica, 1987. Leoni D. e Zadra C. (a cura di ), La città di legno. Profughi trentini in Austria 1915-1918, Trento, Editrice Temi, 1995. Less A. (a cura di), Dizionario Toponomastico Trentino, i nomi locali dei comuni di MORI RONZO-CHIENIS, Mori, La Grafica, 1995. Less A. (a cura di), “… per ricordare S. Barbara.. .zur Erinnerung an die Zeit am Creino… 1915-1916”, Mori, editrice La Grafica, 1997. Less A. e Oswald Mederle (a cura di), Ricordi di Guerra in Val di Gresta, a Nago e alla Rocchetta 1915-1918, Mori, Biblioteca Intercomunale “Luigi Dal Ri”, 2004. Miorelli A. (a cura di), “Senza una metta, senza destinazione”. Diari, ricordi, testimonianze di profughi trentini in esilio 1914-1919, Mori, Biblioteca comunale di Mori, 1989. Palla L., Scritture di donne: la memoria delle profughe trentine nella prima guerra mondiale, in B. Bianchi (a cura di), La violenza contro la popolazione civile nella grande guerra. Deportati. Profughi, internati, Milano, Edizioni Unicopoli, 2006. Righi I. e Leonardi G. T., Austriaci in trincea nella Grande Guerra: il sistema difensivo Austro-Ungarico dai manuali del Servizio Informazioni Italiano, Vicenza, Gino Rossato Editore, 2006. Torboli M, Una cucina da campo con vista sulla valle del Cameras. Le sorprese degli scavi sul Nagià Grom, “El campanò de San Giuseppe”, A. 24 (2009), pp.22-33. 2. Fonti online Documenti sulla Grande Guerra nel Trentino, in http://www.trentinocultura.net Forti e trincee dell’Alto Garda Trentino, in http://www.fortietrincee.it Museo Storico Italiano della Guerra Rovereto, in http://www.museodellaguerra.it Museo Storico di Trento, in http://www.museostorico.it 3. Fonti inedite Beltrami G., La vita gueresca, MsT, Asp. Biblioteca civica G. Tartarotti Rovereto, Archivio Storico, Ms 43.1-43.20 Pizzini Cecilia, Il mio diario, MsT, Asp.

BIBLIOGRAFIA SECONDARIA

1. Fonti a stampa Banti A. M., L’età contemporanea. Dalla Grande Guerra ad oggi, Roma, Laterza, 2009. Bellosi G. e Savini M., Verificato per censura, lettere e cartoline di soldati romagnoli nella prima guerra mondiale, Cesena, Società Editrice Il Ponte Vecchio, 2002. Bertoni E., Bonat S., Frizzera M., Leoni D., Panizza F., Prosser C., Tovazzi F. e Zadra C., La guerra di Volano, appunti per una storia del paese dal 1880 al 1919, Mori, Editrice La Grafica, 1982. Broz M., Profughi trentini in Italia durante la prima guerra mondiale 1915-1918, “Archivio trentino di storia contemporanea”, A.XLII (1993), n.2. De Finis L. (a cura di), Storia del Trentino, Trento, Associazione culturale Antonio Rosmini, 1996. Galbiati M. e Seccia G., Dizionario biografico della Grande guerra, Chari, Nordpress Edizioni, 2009. Garrone G. ed E., Lettere e diari di guerra 1914-1918, Milano, Garzanti, 1974. Gibelli A., Il popolo bambino. Infanzia e nazione dalla Grande Guerra a Salò, Torino, Einaudi, 2005. Gibelli A., Becker A. e Audoin-Rouzeau S., La violenza, la crociata, il lutto. La grande guerra e la storia del novecento, Torino, Einaudi, 2002. Ongari D., La guerra in Galizia e sui Carpazi 1914-1918, la partecipazione del Trentino, Calliano, Manfirni Editori, 1983. Palla L., Il Trentino Orientale e la Grande Guerra: combattenti, internati, profughi di Valsugana, Primiero e Tesino (1914-1920), Trento, Museo del Risorgimento e della Lotta per la Libertà, 1994. Palla L., Procacci G. e Gibelli A., La memoria della grande guerra nelle Dolomiti, Udine, Gaspari, 2001. Scottà A., I Vescovi Veneti e la Santa Sede nella guerra 1915- 1918, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1991, vol.3. Von Lichem H., La guerra di montagna 1915-1918, Bolzano, Arthesia, 1993, vol.2. Wachtler M., Uomini in guerra. La Grande Guerra tra i monti, Bolzano, Editore ATHESIA Spectrum, 2006. Zontini G., Storia di un paese al fronte, Storo, Biblioteca Comunale Storo, 1981




I LASCITI DELLA GUERRA

A guerra finita, fu stilato un prospetto sulle condizioni del territorio trentino, furono individuati tre gradi d’intensità della distruzione:

a)   Zona bianca: nessun danno rilevante, Alto Adige;
b)   Zona grigia: presenti alcuni danni, ma fu concessa l’abitabilità, Trento;
c)   Zona nera: la più distrutta, andava dallo Stelvio fino allo Iudrio (fiume friulano).

La condizione dei paesi della Val di Gresta era abbastanza omogenea: le poche case rimaste erano scoperchiate, i campi distrutti dalle trincee, dai reticolati, dai camminamenti e da anni d’incuria e il bestiame andato perduto. La valle fu stravolta non da imponenti azioni militari, ma principalmente dalle opere costruite in previsione dei combattimenti. Ne “la Libertà”1 dell’ 8 giugno 1919 si legge che “ le rupi sono forate, cinte di difese, irte di reticolati. Ogni luogo ha la sua trincea […]. Le tre belle selve di Manzano, di Pannone e di Gardumo sono rovinate, o bruciate, o distrutte. Gli abitati sono parte distrutti completamente, parte danneggiati, nessuno è rimasto intatto. La popolazione si è rifugiata nei pochi locali rimasti in piedi, come poteva”. Un grosso tributo alla guerra fu pagato dagli archivi parrocchiali di Valle San Felice e dalla chiesa di Sant’Agata a Corniano (del 400 circa). Nella foga della partenza i residenti avevano nascosto le cose di valore e la biancheria nelle cantine, ma neanche queste furono risparmiate. Gli abitanti ritornati, sapevano già che avrebbero trovato i loro possedimenti distrutti. L’impatto fu comunque forte: il disfacimento era totale e mancava tutto. Scrive Cecilia Pizzini nel suo diario: “Nell’anni di guerra passati speravo che terminate la guerra si sarebbe contenti ha! Quale triste delussione purtropo non fu così altre croci seguirono”2. Il rientro in Trentino, dopo anni di lontananza fu per tutti uno shock. La valle durante gli anni della guerra era stata affidata a chi non era di lì, a chi non aveva nessun legame con quei luoghi, a militari che non avevano alcun interesse nel rispettare il territorio. Bisogna rilevare che la Val di Gresta aveva, prima della guerra, un’economia abbastanza avanzata rispetto ad una zona simile della penisola italiana. La cooperazione era molto diffusa e la gente investiva in buoni del tesoro, emessi per far fronte alle spese militari, che assicuravano una buona rendita. Quando il Trentino fu annesso al Regno d’Italia, la popolazione si trovò in miseria. Avevano perso tutto: alcuni familiari, le case, gli arredi, i campi erano improduttivi, molti muretti erano caduti a causa dell’incuria e la liquidità era svanita. A chi convertiva le corone in lire, veniva dato circa il 60% del loro valore e l’Italia, come tutti i paesi europei, fu colpita dall’inflazione. Dopo qualche anno la sorte della Valle cambiò: i prodotti agricoli divennero molto richiesti e ben pagati e quindi per alcuni anni la miseria diminuì. A tutto questo va aggiunta la necessità di ricostruire i rapporti sociali, le relazioni famigliari, di continuare nonostante i lutti. I diari rivelano, non fa eccezione quello di Cecilia, un cambiamento nella mentalità, nei comportamenti, nelle condizioni delle persone dopo la guerra. Giuseppe Pizzini, il marito di Cecilia, tornato dalla guerra è un uomo chiuso, senza obiettivi nella vita, invecchiato dalle esperienze passate. Quando la moglie si ammala e, per un po’, non è in grado di amministrare gli affari di famiglia, lui non riesce a sostituirla e sono costretti a vendere gran parte dei loro beni. Cecilia soffre perché ama quell’uomo che ora non riconosce più, durante la guerra ha sognato ogni giorno il momento in cui avrebbero potuto ricominciare a vivere assieme e ora era tutto diverso. “Nelle mente solitaria silenziose ore passo e passai nei giorni festivi acasciata dal dolore vedendo mio marito asiduo frequentatore dell’osteria”3. Quella di Giuseppe è una condizione poco studiata, ma molto diffusa fra i reduci. Abbiamo a disposizione dati statistici che riportano il numero dei deceduti o degli invalidi nella prima guerra mondiale, ma nessuno studio completo è stato compiuto su chi ha sofferto di traumi psicologici o di problemi di alcolismo a causa dell’esperienza bellica. Cecilia afferma di aver provato in ogni modo a distogliere il marito da questi nuovi vizi, l’alcol e il gioco e che, benché non dubiti della bontà e dell’affettuosità del suo compagno, quando si trova al dopolavoro si dimentica di avere una famiglia. La donna è, come sempre, animata da una forte fede “se Iddio mi vuole provare sia fatta la sua volontà”4 e grazie ad essa riesce a sopportare anche questa dura prova. La vita, nonostante tutto, inizia a riprendere, un segno di questo, è la nascita di Cesira il primo agosto 1919, quarta figlia di Cecilia e Giuseppe. Fu chiamata così in ricordo della sorella di Cecilia morta in Moravia. Un ricordo che Cecilia riporta ne “Il mio Diario” è la deposizione dell’immagine della Madonna, rimasta quasi intatta, nella Chiesa, lo interpreta come un segnale di speranza, di buon augurio. L’intervento del genio civile fu diverso di zona in zona, ma in ogni paese fu creata una piazza, elemento estraneo alla conformazione originaria degli abitati, radendo al suolo le case, già danneggiate, attorno ad un punto scelto. A Pannone, dopo lo sventramento, fu costruita via Nuova, le cui case sono fatte di sassi provenienti dal forte, dove si sistemarono gli abitanti che avevano perso le loro dimore. A Valle San Felice le demolizioni furono due: uno per creare la piazza e un’altra in località La Rì. Nuove case furono edificate nei pressi della Chiesa. A Manzano sì effettuò solo la ricostruzione di ciò che era stato distrutto. Le autorità parlavano di “risanamenti”, ma furono dei veri e propri stravolgimenti. Provvisoriamente furono create anche delle baracche, in cui alloggiare i più bisognosi. A Pannone, l’ultima, dove risiedeva una signora povera, fu abbattuta negli anni Cinquanta. La ricostruzione fu affidata dapprima all’esercito, poi subentrarono anche imprese private. Nei paesi arrivavano funzionari italiani, impiegati, la finanza a controllare lo stato delle cose. Ancora nel 1919 nella valle mancavano locali per le scuole, un ufficio postale e non esistevano rifornimenti regolari e rapidi. La guerra non ha risparmiato nemmeno la morfologia della Val di Gresta, stravolta dallo scoppio delle mine e la vegetazione ridotta all’osso. Le montagne avevano cambiato faccia: solcate da chilometri di filo spinato e sezionate da barriere. I rilievi persero la loro sacralità: avevano impiegato milioni di anni a formarsi e in pochi secondi furono distrutti, la lentezza geologica fu spezzata dalla frenesia della guerra.5 Per costruire le opere belliche furono asportate le travi di legno delle case, dismesse le strade e tagliati gran parte dei boschi, per ricostruire quindi bisognava recuperare di nuovo questi materiali. Il numero dei morti e dei dispersi non dà la giusta dimensione del trauma provocato dalla guerra sulla popolazione e sul territorio. I grestani erano partiti da Austriaci per il fronte o come sfollati e, al loro ritorno, erano diventati italiani. I soldati si ritrovarono ad aver combattuto dalla “parte sbagliata”, contro chi oggi li governava. In Val di Gresta, popolata maggiormente da contadini, la politica era considerata un affare lontano, e così fu data poca considerazione al cambio di sovrano, ma questo provocò comunque uno smarrimento generale. I soldati trentini, che a guerra finita ritornarono alla vita civile, “erano uomini “ex”: ex sudditi di un Impero che si era dissolto, ex combattenti di un esercito vinto, ex prigionieri di uno zar che era stato fucilato.”6 Per loro era umanamente difficile sentirsi parte di questo mondo nuovo, che essi, consapevoli o no, avevano combattuto. Il loro inserimento nella vita quotidiana fu difficile sotto molti aspetti: bisognava ricostruire le case, i rapporti umani, fare i conti di chi era tornato e di chi invece era morto in guerra. Il ritorno degli sfollati ai loro paesi d’origine fu un percorso lungo e molto dispendioso di tempo. Solo nella terza relazione (11 febbraio- 30 aprile 1919) scritta dal generale Guglielmo Pecori Giraldi, governatore militare di Trento, si afferma che il rientro dei profughi può considerarsi terminato e che le persone ritornate erano circa 70.000.

(1) Giornale del partito liberale italiano, sezione di Trento.
(2) MsT, Asp, Cecilia Pizzini, Il Mio Diario, p.73.
(3) Ivi, p.74.
(4) Ibidem
(5) Leoni D., Guerra di montagna/ Gebirgskrieg, in La prima guerra mondiale, Torino, Einaudi, 2007, vol.1, pp.237-246.
(6) Antonelli Q., I dimenticati della Grande Guerra, La memoria dei combattenti trentini (1914-1920), Trento, Il margine, 2009.




RICORDI DI UNA PROFUGA

Ecco come descrive questi avvenimenti Cecilia Pizzini, che riporta nel suo diario le varie tappe della sua diaspora.“La matina del venitre di buon’ora ciano mesi in viaggio […]. Partimo verso le sei del mattino senzza una metta, senzza destinazione. […]Errano le sei di sera quando siamo arrivati in Patone dodici ore raminghi sotto i raggi del sole mentre in due di camino si raggiunge Patone”.(12)
Il giorno 26 maggio fu consentito, a chi voleva, di andare a prendere il necessario lasciato a Nomesino e si presentò loro uno scenario triste. “Qualle rovina qualle distruzione in solli tre giorni! […]I mobili e biancherie vestiti e cetera nuotavano nel vino sicome si aveva meso dette cose nelle cantine”.(13) Il 4 settembre giunse l’ordine di andarsene da Patone, la popolazione s’incamminò verso Calliano. Partirono poi verso il nord e il sette arrivarono a Salisburgo.“[…]la matina del dieci di venerdi a mezzo giorno erravamo giunti a Praga capitalle della Boemia”.(14)

“Finalmente il  quatordici i  di martedi verso le  tre di sera siamo arivati a Piesling (Pisečne, Repubblica Ceca) Moravia”.(15)  Nei ricordi di Cecilia, questa cittadina di circa settecento abitanti, dista tre ore dal Capitanato, che si trovava a Daschiz (Dačice). Qui le persone erano divise fra  chi  era  sottoposto  al  podestà  ebreo  e  chi  a  quello  cristiano,  la ripartizione era fatta indipendentemente dalla religione. Il campo era dotato di un ufficio postale, un gabinetto di gendarmeria, due o tre volte l’anno arrivavano  le  giostre  e  ogni  tre  mesi  si  svolgeva  il  mercato,  dove  si potevano trovare vestiario, stoffe, scarpe e dolci. La chiesa e il cimitero erano situati in un paese poco distante, Noistiff (località non identificata). A Righes (località non identificata), descritto da Cecilia come un piccolo ma ricco borgo, si recavano gli esuli in cerca di burro, latte, uova, farina, i generi di prima necessità. In questa cittadini erano sfollati anche alcuni abitanti di Nago e Riva. Alla famiglia di Cecilia toccò la sorte di molte altre,  ebbero  la  fortuna  di  poter  stare  assieme  alcuni giorni,  ma  poi dovettero partire sua sorella, alcuni zii, i cognati, chi verso Leibnitz, chi verso altre località boeme.
Nel suo diario, la donna ricorda come nel campo s’incontravano persone di  varie religioni, nazionalità ed estrazione sociale. La  signora Pizzini afferma che riuscivano a capirsi nonostante la barriera linguistica. Le prime impressioni del campo sono positive: la guerra non si sente e c’è molta  scelta  nei  prodotti alimentari. Questo durò  poco  e  le  condizioni iniziarono a farsi più difficili. Poi però, le persone abili furono obbligate alavorare e Cecilia perde una delle sue sorelle a causa del tifo. Si dispera perché la sorella era lontana, (Bhömisch- Leipa, oggi Ceská Lipa) e non ha potuto starle vicino. Toccanti sono le pagine in cui, oltre a ricordarla con parole di bontà, pensa a come comunicare la notizia al padre, impegnato come lavoratore militarizzato a Rovereto. “Si pensa si ripensa come si possono fare a notificare al babbo la dolorosa perdita”. (16) Nel dicembre del 1915 il padre la raggiunge “[…]mi si presenta un uomo con la barba lunga lo riconosco facio un grido labracio lo bacio.” (17)
Un altro pensiero costante di Cecilia è il marito. Il loro era un matrimonio d’amore e lei tenta in ogni modo di mettersi in contatto con lui, scrivendo a tutte le persone che potrebbero avere sue notizie. Non si rassegna, non le bastano le voci che la raggiungono e sostengono che suo marito sia prigioniero in Russia, lei vuole che sia lui a scriverle. Il 13 ottobre 1916 finalmente il marito le manda una cartolina: “Quando mi giunse lo scrito desiderato. Riconosco subito quei carateri metto un grido di gioia, bacio quella roza cartolina […]doppo lunghissimi sedici mesi dangosia”. (18)  Da qui in avanti Cecilia inizierà uno scambio abbastanza frequente di epistole fino al febbraio 1917, in questo periodo le“ sembra dessere la donna più felice della terra”. (19) Nei suoi scritti c’è più speranza, si sente che il suo animo è più leggero e che avverte più vicino il ritorno al suo amato Nomesino. Al contrario trovare il cibo era sempre più difficile e Cecilia riporta che per tre mesi hanno dovuto mangiare solo erbe cotte raccolte nei prati. Il 13 giugno 1917 il marito le scrive che si trova in Austria e che, dopo il periodo di quarantena, pensa di riuscire ad andare da lei. Cecilia conterà i giorni, s’immaginerà il momento del loro incontro moltissime volte, sarà il pensiero che la farà andare avanti. Finalmente il 19 luglio  Giovanni  arrivò  al  campo,  dopo  quattro  anni  la  coppia  poté riabbracciarsi. “Si cerca nel cuore e nella mente parole di saluto ma il cuore e muto non  sugerise nulla. Sembra un  sogno  si  cerca nell’inmagginazzione la realta il cuore batte forte, forte ma sollo lagrime si versano. Perche tantto il dolore come la troppa gioia non ha parole ma sollo pianto”.(20)
Il 4 novembre 1918 la guerra finì, il ritorno in patria era ormai una realtà.  “[…]ci dicono voi  siete  Italiani ma  poco  ci  inporta Italiani hoTedeschi basta sia finita e potere tornare al caro paesello abbandonato”.(21) Il 6 febbraio 1919 iniziò il rientro dei profughi trentini, salirono su un treno che compì al contrario il percorso fatto quattro anni prima. Ad Innsbruck, rimasero per quasi due giorni, dopo quattro giunsero a Trento e li sistemarono presso le Caserme Perini. Cecilia annota con pazienza i disagi che sono costretti a subire per l’ennesima volta. Solo il ventuno la popolazione ottenne il permesso di proseguire fino a Rovereto, alcuni, fra cui il marito di Cecilia, si spingono fino a Nomesino al fine di preparare una stanza abitabile. Nei giorni di permanenza a Rovereto Cecilia perde il suo unico figlio maschio, colpito da nefrite fulminate (infiammazione ai reni).
Un mese dopo la partenza dalla Moravia, tutti gli esuli si ritrovarono a Nomesino e qui dovranno iniziare a ricostruire la loro vita.

(12)  Miorelli A. (a cura di), “Senza una metta, senza destinazione”. Diari, ricordi, testimonianze di profughi trentini in esilio 1914-1919, Mori (Trento), Biblioteca comunale di Mori, 1989, pp.49-50.
(13) Ivi, p.50.
(14)Ivi, p.54.
(15) Ivi, p.55
(16) Ivi, p.56.
(17) Ivi, p.57.
(18) Ivi, p.59.
(19) Ibidem.
(20) Ivi, p.62.
(21) Ivi, p.64.




LA SORTE DEGLI SFOLLATI

Il mese di settembre fu quello della partenza. I profughi furono fatti salire su treni che da Rovereto, via Bolzano, raggiunsero Innsbruck, Salisburgo e poi Praga. Durante il viaggio, furono frequenti i prelevamenti coatti di uomini non arruolati, ma in grado di lavorare. Questo provocò l’ennesima frattura all’interno delle famiglie. I grestani furono smistati in località della Boemia, della Moravia o in grandi campi di raccolta, comeMitterndorf o Braunau am Inn. Alcuni abitanti di Valle San Felice furono fin da subito collocati a Mitterndorf, la città di legno.(5) Questi agglomerati sono descritti come “le prime forme di lager che si ricordino”(6). I profughi entrarono nelle baracche nonostante queste non fossero ancora completate e mancassero i servizi fondamentali. L’approvvigionamento militare fu affidato a una società che però, anche secondo un rapporto della Croce Rossa del febbraio1916, non tenne conto delle abitudini trentine e usò cibi marci, la soda per cuocere e solo latte in polvere e questo causò il manifestarsi di alcuni casi di tifo. A causa della denutrizione la mortalità infantile fu molto alta, il 47,5% dei deceduti trentini fra il giugno 1915 e il dicembre 1918, furono di età inferiore ai dieci anni.(7) Le autorità organizzarono le giornate in modo da renderle il più possibile uniformi, la vita era scandita da ritmi militari. Gli sfollati abili al lavoro furono mandati a lavorare nelle fabbriche dei dintorni, ricevevano una retribuzione simbolica. L’integrazione per gli adulti fu più difficile che per i bambini, negli anni di permanenza impararono solo le parole fondamentali che servivano per acquistare i generi di prima necessità. Nei centri in cui c’era una più alta concentrazione di trentini, furono aperte delle scuole italiane, negli altri luoghi le autorità obbligarono la frequenza in quelle locali. I rifugiati ricevevano, dal comune in cui dimoravano, un sussidio giornaliero di ottanta centesimi per gli adulti e sessanta per i bambini, in seguito fu aumentato a una corona. Nel luglio del 1917 fu proposta da De Gasperi una legge a favore dei profughi trentini, che assicurava loro una maggiore libertà nei movimenti. C’è da chiedersi se chi viveva nelle baracche fosse a conoscenza di quest’iniziativa, che fu comunque approvata solo nel marzo del 1918. Le persone erano informate sui fatti della guerra dalle lettere che giungevano dai soldati, dalle poche copie di giornali in lingua italiana e dal passaparola che ottenevano dai contatti che, col tempo, riuscirono a ristabilire con i paesani sfollati in paesi vicini. Il cibo fu un problema fin dalle prime settimane. Le abitudini alimentari dei trentini erano molto diverse da quelle delle popolazioni locali e così molte cose risultavano loro immangiabili. Chi aveva del denaro poteva acquistare alcuni generi alimentari, ma questi avevano dei costi molto elevati che ben pochi potevano permettersi. Dal 1917 la situazione si fece critica, la mancanza di generi alimentari era ormai una situazione diffusa in tutto l’Impero Austro-Ungarico. Che le condizioni dei profughi trentini in Boemia e Moravia non fossero delle migliori si evince anche dalle lettere da loro indirizzate al Segretariato Trentino per Richiamati e Profughi, con sede a Trento. Gli scritti sono 3931, all’interno dei quali alcuni sono di abitanti della Val di Gresta. Cronologicamente, la prima lettera è di Demetria Gobbi, esule da Valle San Felice, ed è datata 21 agosto 1915. La donna lamenta di aver dovuto abbandonare il suo paese entro tre ore, lasciando ogni cosa e del fatto che, come profughi, ricevevano solo cibo e paglia per il letto. Demetria afferma di aver bisogno di biancheria, ma di non aver soldi e, non potendo lavorare, chiede aiuto al Segretariato. In fondo alla missiva aggiunge che facilmente saranno trasferiti, ma non sa dove, sottolineando la condizione di precarietà.(8) Analizzando le lettere, si rintraccia una tipologia standard in cui vengono redatte: sono quasi tutte indirizzate allo Spettabile Segretariato in Trento, seguono le generalità del mittente, il paese d’origine in Val di Gresta e l’indirizzo da profugo. La domanda di aiuto veniva introdotta dalla formula: “trovandosi al bisogno prega per i seguenti indumenti”; le richieste sono divise per persona, di cui si conoscono nome, età, statura e di cosa necessita. La conclusione era affidata alle seguenti parole: “si affirma, devotissimo, ringraziando”. Alcune lettere sono cumulative e riportano i bisogni di diverse famiglie, anche di paesi diversi.(9) Generalmente sono le donne a scrivere, aggiungono il loro stato civile, ad esempio vedova, sposata, madre di e il nome dei figli.(10)

(5) Leoni D. e Zadra C., Le città di legno, Profughi trentini in Austria 1915-1918, Trento, Editrice Temi, 1995 è l’opera più completa su questo argomento.
(6) Ivi, p.61.
(7) Ivi, p.83.
(8) Biblioteca Civica Rovereto, Ms 43.3, 26/11-13/12, 1915, n.260 vs.
(9) Biblioteca Civica Rovereto, Archivio storico, lettera n.517, Ms. 43. 6, lettera n.2401, Ms. 43. 13.
(10) Una di queste lettere è scritta da Giuseppe Giuliani, mio bisnonno paterno, profugo a Hötting, vicino Innsbruck.




EVACUAZIONE DAI PAESI DELLA VALLE

L’apertura del fronte italiano comportò il secondo tragico sviluppo dell’esperienza di  guerra dei  trentini. Lo  sfollamento della popolazione ebbe inizio poco dopo l’entrata in guerra dell’Italia, nel maggio del 1915. Gran parte del Trentino sarebbe divenuto zona di guerra e quindi doveva essere sgomberato dai civili. Gli storici sono concordi nell’affermare che l’esodo interessò circa 75.000 trentini. Le destinazioni principali furono: Moravia, Boemia e Austria settentrionale e meridionale, un territorio venti volte  più  esteso  dell’attuale  Trentino.  Gli  sfollati  furono  segnati  dallo stigma  della  separazione:  dal  proprio  territorio,  dalla  famiglia,  dalla memoria. (1) L’ordine di evacuazione per i paesi della Val di Gresta (2370 abitanti in totale) fu emanato alle ore 16 del 22 maggio 1915 e doveva essere eseguito nelle ventiquattro ore successive.
Al momento dello sgombero si presentarono dei gendarmi che, con l’aiuto di un interprete, intimavano di abbandonare i paesi per riunirsi a Castellano. Il caso volle che quel giorno piovesse, rendendo così la partenza più difficoltosa. Il decreto fu poi ridimensionato e la cittadinanza dovette scendere solo fino a Loppio. Ogni persona avrebbe dovuto portare con sé un bagaglio non superiore ai cinque kg, fu assicurato che il rientro sarebbe avvenuto dopo pochi mesi. Il mobilio, la biancheria, gli attrezzi da lavoro e alcuni viveri furono nascosti nelle cantine, senza troppa cura. Luigi Gentile, abitante di Valle San Felice, ricorda che nessuno si curò di nascondere i gioielli e le altre cose preziose perché era convinzione diffusa che i militari non avrebbero preso nulla. Fu concesso l’uso di carri per trasportare gli ammalati. Le famiglie che avevano mucche, capre, vitelli furono obbligate ad affidarli alle autorità.(2) Gli abitanti di Ronzo-Chienis furono incaricati di consegnare gli animali degli sfollati della valle ai militari e di raccogliere il grano maturo, per questo restarono qualche mese in più nelle loro case. Ultimati i loro compiti, raggiunsero anche loro il resto degli abitanti. In valle rimasero per tutta la guerra una decina di militarizzati e alcuni clandestini. A due uomini fu ordinato ufficialmente di non andarsene: Luigi Gobbi dei Fiavéi fu indicato come fiduciario della valle e Massimo Ferrari come panettiere fu trattenuto a Ronzo per sfamare le truppe austriache. Gli anziani ricordano di alcune famiglie che rimasero, anche senza permesso, sul territorio della Valle, vivendo alla macchia nei boschi. A Pannone, ad esempio, i “Dolzi” e un’altra famiglia si trattennero nei pressi dell’abitato e gli altri concittadini affidarono loro i pochi averi che possedevano.
Le  famiglie  più  benestanti come  i  Maini  di  Pannone, preferirono emigrare in Italia, dove potevano sperare in condizioni più dignitose.
Gli abitanti di Pannone, Manzano e Nomesino alloggiarono per un breve periodo presso i comuni non ancora evacuati del Distretto di Villa Lagarina. Nel mese di agosto ai grestani fu consentito per quattro volte di ritornare ai loro paesi. La distruzione era sempre più diffusa: alle case mancavano i pavimenti, le ringhiere e i bronzi delle chiese furono usati per scopi militari. Questo provocò un forte dolore a chi ritornò a salutare il proprio paese,  così  la  gente  partì  inquieta. Significative sono  anche  le memorie di Teresa Armani che, il giorno dell’evacuazione, stava ritornando a Pannone da Rovereto, dove serviva una famiglia. Giunta a Loppio, le guardie la  informarono che tutti gli abitanti erano partiti e  a  lei  toccò prendere l’ultimo treno, destinazione Boemia.
Nella piccola realtà grestana possiamo rintracciare tutti i tipi di emigrazione che sono stati riscontrati in Trentino: chi è partito verso altre regioni dell’impero asburgico, chi è rimasto in loco, chi in alcuni paesi vicini e chi è andato in Italia. Patone, Castellano, Nave San Felice, Pomarolo,  Trento,  Noarna,  Villagarina,  Nogaredo  e  Chiusole sono  gli abitati limitrofi che hanno ospitato una minoranza di    valligiani, prevalentemente di Manzano, Nomesino e Chienis.(3)
L’impatto psicologico di questo esodo coatto fu enorme sia per le persone sia per il territorio. Come riportano D. Leoni e C. Zadra, l’emigrazione fu doppia: gli uomini dai diciotto ai cinquanta anni mandati a combattere; le famiglie trasferite nelle provincie centrali dell’Impero, le abitazioni, i campi e il lavoro abbandonati. Molte persone non si erano mai spostate dal loro luogo di nascita, conoscevano solo i paesi vicini e i nomi di alcune città, si trovarono quindi spinte verso l’ignoto.(4)

(1) Leoni D., Regioni di confine: il caso trentino, in La prima guerra mondiale, Torino, Einaudi, 2006, vol. 2, pp.101-111
(2) Leoni D. e Zadra C. (a cura di), La città di legno. Profughi trentini in Austria 1915-1918, Trento, Editrice
Temi, 1995, p.31.
(3) Biblioteca Comunale, Rovereto, Archivio Storico, da MS 43.1 a MS.43.20.
(4) Leoni D. e Zadra C., Le città di legno, Profughi trentini in Austria 1915-1918, Trento, Editrice Temi, 1995, p.33.




LA GALIZIA

Tragitto compiuto dai soldati austro-ungarici verso la Galizia

Gli strateghi di Francesco Giuseppe ritenevano la Galizia il punto di partenza obbligato di ogni azione contro l’Impero russo.(3)
I combattenti trentini furono mandati sul fronte orientale in Galizia, Bucovina e Volinia. I convogli impiegarono cinque o sei giorni a percorrere i circa ottocento chilometri che li separavano dal fronte. Le truppe arrivavano soprattutto dai valichi di Lupkow e di Jablonika. Scesi dai treni per i soldati iniziava la marcia verso il fronte russo. Le battaglie che vi ebbero luogo furono dei veri e propri massacri. Gran parte dei deceduti trentini in guerra (11.400 secondo i dati più recenti) perse la vita proprio combattendo nelle prime fasi del conflitto o perché caddero prigionieri in mano russa.
In Galizia fu combattuta una guerra simile a quella che si aspettavano le alte gerarchie militari, quella tipica dell’Ottocento fatta di scontri diretti con i soldati armati di sola baionetta, di avanzate e  ritirate, di  marce  senza  fine,  di  grandi  battaglie e  di  molti prigionieri. Questa regione fu sconvolta dalla guerra, che colse di sorpresa la popolazione, costretta ad una veloce fuga. La più pesante conseguenza della guerra fu l’arresto dello sviluppo economico della Galizia: furono distrutti i campi, le vie di comunicazione e pesanti danni subirono anche le opere artistiche e gli edifici.
Verso  la  fine  di  agosto  gli  austro-ungarici  attaccarono  l’esercito zarista in Volinia, ma furono respinti e, a settembre, i russi riuscirono a occupare Leopoli, capitale amministrativa della regione. Poco dopo fu assediata la fortezza di Przemyśl.
Gli austriaci dovettero riorganizzare le loro posizioni circa a 50 km ad ovest di Leopoli, con lo scopo di riprendere la capitale. Dopo la sconfitta nella battaglia di Rawa-Ruska, l’esercito asburgico tentò un secondo ripiegamento verso il fiume San, affluente della Vistola, ma anche questo fallì.

Grazie al supporto dell’alleato tedesco, gli austriaci riuscirono a ricostruire il loro esercito e a ottobre finì l’assedio alla roccaforte di Przemyśl. Questa situazione durò poco: i russi, per alleggerire il fronte occidentale,  passarono  all’offensiva,  con  lo  scopo  di  spingersi  fino  a Vienna. Il coordinamento fra i reparti fu però scarso e i rifornimenti lenti e quindi gli attacchi ebbero poco successo. A dicembre gli asburgici costrinsero i russi ad una parziale ritirata a sud di Cracovia.
Il 1915 si aprì con la volontà austriaca di riconquistare totalmente la Galizia.  Il  lungo  assedio  russo  alla  fortezza  di  Przemyśl  costrinse  il baluardo alla resa. Il 22 marzo 1915 si consegnarono ai russi: nove generali, novantatré ufficiali superiori, 2500 ufficiali e 117.000 soldati semplici.(4)
I soldati in fuga tentarono di raggiungere i monti Carpazi, luogo di resistenza degli austriaci. Nell’aprile del 1915 la sconfitta austriaca sembrava inevitabile, l’Impero era stato costretto a trasferire parte dei suoi contingenti dal fronte orientale a quello meridionale. Nell’estate del 1916 la Russia passò nuovamente all’offensiva e avanzò di alcuni chilometri verso occidente.
Verso la fine di agosto iniziò un’altra fase del conflitto: guerra di trincea, di posizione. Con l’arrivo dell’inverno e del freddo le condizioni peggiorano e con esse anche il morale. Il 3 settembre i Tedeschi riuscirono a  conquistare la  città  di Riga. In seguito alla Rivoluzione russa e  alla conseguente  dissoluzione dell’esercito russo,  fu  firmata,  nel  marzo  del 1917, la pace di Brest-Litowsk.

I Trentini morti in Galizia sono, stando alle cifre attuali, circa 11.400, cui vanno aggiunti i prigionieri. Le salme non tornarono mai in patria, ma furono disperse in cimiteri di fortuna. I caduti rappresentano il 2,9% della popolazione trentina che in quegli anni era di circa 380.000, il 19% dei richiamati alla leva non ha mai fatto ritorno.(5)

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(3) Pezda J. e Pijaj S., Le principali vicende militari sul fronte asutro-russo (1914-17), in Fait G. (a cura di), Gli italiani d’Austria e il fronte orientale: uomini popoli culture nella guerra europea (1914-1917), Rovereto, Materiali di Lavoro, Museo Storico Italiano della guerra di Rovereto, 1997, p.99.

(4) Antonelli Q., I dimenticati della Grande Guerra: la memoria dei combattenti trentini (1914-1920), Trento, Il margine, 2009, p.85.
(5) Dati forniti da Zadra C., durante la serata commemorativa in ricordo dei caduti della prima guerra mondiale, che si è svolta l’8 aprile 2010 presso l’auditorium di Mori.




EFFETTO DELLA GUERRA SUI CIVILI

Fino a qui abbiamo seguito le sorti dei combattenti grestani durante la guerra, ma non bisogna tralasciare l’effetto che questa ebbe sui chi rimase lontano dal fronte. Donne, anziani e bambini si trovarono ad essere gli unici abitanti della Val di Gresta, oltre ai militari. I soldati partono e le loro famiglie restano orfane. La scrittura femminile, piena d’emotività, descrive al meglio questa situazione. Nel diario di Cecilia emerge che la donna si sente di dover “combattere” non per se stessa, ma per i suoi figli, il marito lontano, il padre anziano. La vita di mogli, sorelle e cognate sarà ora una ricerca continua d’informazioni sui loro cari, chi scrive, chi cade ferito, chi invece non comunica sue notizie da molto. Dopo la chiamata alle armi degli “abili”, il diario di Cecilia è un resoconto di lettere, cartoline, voci, elenchi di richiamati e preoccupazioni.
La donna soffre vedendo i campi, pronti per il raccolto, abbandonati, gli animali che non vengono condotti al pascolo e inizia a rendersi conto che nulla sarà più come prima.
Le donne di Nomesino danno prova di essere molto decise nel voler ottenere quello che spetta loro di diritto, quando vengono a sapere che alle famiglie dei militari è garantito un sussidio. In un primo momento ricevono risposta negativa, perché gli amministratori pensavano di dover pagare di tasca loro.

“Difatti quando furono stanchi di vederci li a seccarli ci firmaronno forzatamente le carte”(36) e tutti ricevettero il dovuto.
Alcune donne, fra cui Cecilia, non ricevendo da mesi notizie dai mariti, con l’aiuto del parroco di Manzano, scrivono una lettera per chiedere notizie al reparto prigionieri e internati della Croce Rossa. Cecilia riporta anche la difficoltà di acquistare il cibo, si lamenta che i prezzi aumentano dalla mattina alla sera e che i soldi non bastano mai. Si nota nelle sue parole una nota di pessimismo, Cecilia sente che il futuro sarà peggiore. Denuncia anche la devastazione  che  sta  subendo  il  territorio:  i  militari  sequestrano  la campagna, non ci sono più né animali, ne pascoli, né fieno. “Nomesino! che era il paese più ricco di pascoli e foraggi senza saperlo diventerà il piùpovero!”(37).

La signora Pizzini ha il pensiero fisso del marito, alcune volte parla di “fitta al cuore”. Quelle poche volte che ha la possibilità di vederlo i loro incontri sono densi di emozioni, toccanti. Una di queste visite si svolge presso una caserma di Trento: “[…]ed eccolo, che lo scorgo!Per un minuto mi fermo e lo guardo[…]io mi sono ritirata come se quella vista fosse un sogno”. (38)
Il marito non voleva farsi vedere a causa del suo cattivo stato di salute e igienico, poi la voglia di riabbracciare la moglie e il padre prevale. Cecilia non risparmia i dettagli come i pidocchi che camminano sulle spalle del marito. Molto interessante anche la riflessione che Cecilia fa quando agli scolari viene chiesto di andare per le case a chiedere oggetti di metallo, rame, etc. “noi non ne avevamo da regalarle ma credo che per questo non avrà da lamentarsi gli ho regalato un oggetto assai più prezioso del metallo gli ho datto quanto va di più caro al cuor mio il mio amatissimo sposo”.(39)
La donna è ansiosa di avere notizie sulla guerra, vuole capire a cosa è sottoposto suo ma possibili. Egli si  sofferma sul  momento in  cui  è  stato  ferito, descrive com’è stato colpito, ma anche come ha risposto uccidendo il suo avversario. “Oh! Orrore non si vorrebbe e si deve farlo per compiere il dovere.”(40), così reagisce Cecilia, arrendendosi alla dura realtà. Cecilia mostra di essere rassegnata agli eventi, ha fede in Dio e crede che sia giusto abbandonarsi alla sua volontà, senza lasciarsi prendere dalla disperazione.
rito. Per questo, quando Valentino Rizzi, suo compaesano, torna in paese dal fronte galiziano, gli chiede di raccontargli più cose possibili.  Egli si  sofferma sul  momento in  cui  è  stato  ferito, descrive com’è stato colpito, ma anche come ha risposto uccidendo il suo avversario.
“Oh! Orrore non si vorrebbe e si deve farlo per compiere il dovere.”(40),
così reagisce Cecilia, arrendendosi alla dura realtà. Cecilia mostra di essere rassegnata agli eventi, ha fede in Dio e crede che sia giusto abbandonarsi alla sua volontà, senza lasciarsi prendere dalla disperazione. Nei momenti più importanti lei prega sempre, Dio, S. Maria, Antonio da Padova e il Papa.

(36) Pizzini C., Scritture di guerra, Museo storico in Trento e Museo storico italiano della guerra di Rovereto, Rovereto, 1996, vol.5, p.168.
(37) Ivi, p.158.
)38) Miorelli A. (a cura di), “Senza una metta, senza destinazione”. Diari, ricordi, testimonianze di profughi trentini in esilio 1914-1919, Mori (Trento), Biblioteca comunale di Mori, 1989, p.30.
(39) Pizzini C., Scritture di guerra, Museo storico in Trento e Museo storico italiano della guerra di Rovereto,
1996, vol.5, p.157
(40) Ivi, p.139




LA VITA GUERESCA

Giacomo Beltrami nasce a Nomesino nel 1875. Egli fu richiamato alla leva il 2 agosto del 1914.
Quando partì per adempiere al suo dovere di suddito non era sposato e aveva già trascorso quasi dodici anni in America.
Durante la prigionia redige un diario, “La vita gueresca”, nel quale narra gli avvenimenti dall’agosto 1915 fino al maggio dell’anno dopo.(6)
Ci serviremo della  sua  testimonianza per  seguire gli  avvenimenti dalla  partenza alla prigionia. In una delle ultime pagine Giacomo rende noti i suoi intenti:
“io essendo presoniere hò voluto fare una memoria di quelo che hò veduto, hò provato, nei lunghi 8 mesi di bataglia”.(7)
Quando fu richiamato alle armi da Nomesino, si sposta a Innsbruck, dove poco dopo lo raggiungerà anche il fratello.
È inserito nella 12esima Compagnia e fa subito la conoscenza con Dionisio Dallabrida.
Egli rivela con molti dettagli ciò che accade: cosa mangiano, dove dormono e a quali ordini devono ubbidire. Interessante il momento in cui racconta l’arrivo di un superiore:

“In quel mentre è venuto un ufficiale aveva una quantita di fasse, egli nediede una per ciascuno, e poi mi dice, questa fassa metetela al bracio sinistro, peri dimani per le 8 di essere tutti quà, adesso potete
andare,  alora  il  nostro  ridere  sparì”.(8)

La  sera  prima  della  partenza Giacomo va a salutare il fratello e vedendolo piangere afferma:

“Perche piangi, giamai, per me quello che è statto e statto e non pensso più, se mi sara dato grazia di tornare […]Deve fare il Cuore come la Tigre e sangue fredo”.(9)

Come si osserva, c’è in lui un forte sentimento di rassegnazione, che porterà avanti per tutto il diario, sembra che Giacomo sia convinto che, una volta partito, non riuscirà a sopravvivere alla guerra.
La sera del 20 agosto 1914, i battaglioni partirono in treno in direzione della  Galizia,  passando  per   tutte le   principali  città  dell’Impero.
Il venticinque giunsero a destinazione e i militari, scesi dai treni, iniziarono la marcia verso il fronte.
Durante il cammino incontrano civili che scappano, carri di feriti, “fugivano per salvarsi la vita faceva pietà”.(10).
Giacomo e il suo compagno, Dionisio, si fanno una promessa: se uno dei due cade ferito, l’altro ha l’obbligo morale di soccorrerlo e di non lasciarlo sul campo di battaglia.
“Allo spuntar del giorno siamo arivati ai piedi di una colina dietro vi era il  nemico”(11) si  avvicina quindi il  momento della prima battaglia.
L’ufficiale tenta di fare un discorso motivazionale alle truppe: “noi non abbiamo paura dei nostri nemici […]e li ucideremo come cani”(12), >cerca di infondere coraggio ai suoi sottoposti ricordando che anche i loro antenati avevano combattuto, ma non si erano mai persi d’animo.
Quando giunge l’ordine di salire la collina, Beltrami si fa il segno della croce e parte assieme agli altri alla scalata. Il primo tentativo fallì, gli austro-ungarici furono sommersi da una pioggia di granate russe.
Il secondo tentativo andò a buon fine, riuscirono a raggiungere i campi dopo la collina.
Come da manuale, i soldati scavano delle buche in cui passare la notte, ma ricevono l’ordine di non addormentarsi perché il nemico era troppo vicino.
I soldati non mangiavano da due giorni e Dionisio si lascia sfuggire: “hò una fame da lupo”.(13)
“La mattina del giorno 29 verso le 4 i Canoni comincio adarmi il buon giorno”(14), con un pizzico d’ironia il Beltrami descrive la sua condizione, ormai quotidiana, di soldato.
Vedendo che da ore i nemici non si muovevano dalle loro posizioni, gli ufficiali ordinarono di andare all’attacco.
“Mi fece andare avanti gridando Ura, giunti alla distanzza circha 50 passi dal nemico le balle veniva come quando fiocha la neve”.(15)
Tenendo  fede  alla  sua  promessa,  quando  il  compagno  cade  ferito,  il Beltrami lo aiuta e lo porta in un posto sicuro. “sentì un lamento vicino a mè, mi vottai è non vedei il mio Compagno hà, era caduto; io senzza perdermi di coragio lò preso sotto le bracia e lò levatto in piedi, egli piangeva”(16).
In una delle pagine più realistiche e toccanti, il Beltrami si descrive come uccisore. Si trova protagonista di un corpo a corpo con un soldato russo. Non esita, agisce con freddezza e decisione, senza pentirsene. Scrivendo fa trasparire tutto questo con sincerità e chiarezza, non si nasconde dietro falsi moralismi.“ e  alzzo il  calcio é  fece un passo per colpirmi, ma  non fece  il secondo, io stando in ginochi presto puntai il mio fucile é feci fuocho egli cadde”(17), poi si ripara in una buca. Il russo, però, non è ancora morto e allora Giacomo si scaglia una seconda volta su di lui “Prendi velenoso serpente tu non avrai più la grazzia di andare in Russia e avantarti che hai uciso un Austriaco”.(18) Poco dopo, ripensando a quello che aveva fatto, gli viene da piangere e si mette subito a pregare, cosa che lo consola. Al nemico, a volte, riserva parole dure: “quei porchi di Russi vedonoun uomo e spara il cannone”8 (19), altre volte usa espressioni più poetiche come “cadeva come le foglie deli alberi lautuno”(20)  oppure “ dal bosco venivano fuori come formiche”.(21)
Come già accennato, nel corso della narrazione, Giacomo riflette sulla sua condizione precaria e sull’inevitabilità della morte “lé la quinta volta hò la sesta volta che la porto via, ma le in nutile un ora hò naltra dovro del sequro soccombere”.(22)  Arriva al punto di invidiare la sorte di un amico deceduto, “hé tù hò morte, perché non mi prendi; hé 8 lunghi mesi che io ti vado cercando”(23). Queste affermazioni di solito coincidono con la morte di un compagno o quando l’autore si trova in uno stato di profonda disperazione. Per due volte Giacomo dichiara di sentirsi perseguitato dalla sfortuna, quando la sua compagnia è scelta per fare la pattuglia e quando riesce a uccidere una lepre e il Colonnello gliela prende. Egli si sfoga così:“ ho malledetta sforttuna, quando finirai tio, di persseghitarmi, quando sarò morte”.(24)
Giacomo Beltrami racconta anche un episodio di tradimento da parte di alcuni civili galiziani. I soldati avevano ricevuto l’ordine di chiedere dei viveri agli abitanti di un paese, ma senza compiere violenza. Tutti risposero in maniera negativa e una donna, interrogata sul perché, ammise che “È il comandamento del nostro Capo Comune”(25) , iniziò quindi la ricerca dell’uomo. Trovarono un pozzo coperto di tavole in cui c’era“un uomo che gaveva il telefone che parlavano coi Russi, era il Capo Comune […]lo fecero legare e condotto dove era la peramide e legato ad una pianta”(26). Fu requisito tutto il cibo trovato e, in seguito, incendiato tutto il paese. Il Beltrami non si risparmia e definisce così il Capo Comune: “A traditore adesso tu pagherai il sangue di tantti nostri fratelli”.(27)
Giacomo riporta con molta precisione i dati sulla sua Compagnia, quando era stata formata, contava 260 soldati e il 3 novembre 1915 erano rimasti solo sessanta soldati abili a combattere.
Per un periodo Beltrami prestò servizio presso la fortezza di Przemyśl. Egli fa il resoconto di un tentativo di attacco, da parte dei russi, iniziato la notte di Natale del 1915 all’una. L’assalto è illuminato a giorno, grazie ai riflettori accesi dagli austriaci. Egli ci descrive tutte le diverse fasi: “venivano colpiti di fronte e da tutti i due fianchi […]verso le tre il nemico aveva cominciato a taliare i fili di fero, versso le cinque erano arrivati al
fosso del forte”.(28) La fortezza però era ben difesa e l’assalto russo fallì. Nel febbraio del 1916 il Beltrami riceve anche una medaglia al valore per essere riuscito a uccidere un russo, incontrato mentre lui e un suo compagno erano stati mandati alla ricerca di cibo.
Con il passare del tempo la situazione è sempre più difficile “>allora gavevamo da combatere cola fame col fredo col nemico coi pedochi, ha queli  non  mi  lassiava  un  minuto  in  pace” (29).  Qualche  pagina  dopo  il Beltrami aggiunge: “Mi pare impossibile che un corpo umano come possa fare aresistere alla fame al fredo le note strapazzate e pieni di peochi”(30). Giacomo in una casa diroccata trova uno specchio, si guarda. Aveva gli occhi  infossati, la  barba  lunga  da  quattro  mesi  ed  era  pallido.  La  sua reazione fu di spavento:“mi aveva fatto, paura: fugi via!”(31). Il 18 marzo il Battaglione  del  Beltrami  assieme  ad  altri,  lasciò  la  sicura  fortezza.  Il comandante  lo  avverte  che  la  sera  marceranno,  con  tutte  le  truppe disponibili, contro il nemico, l’obiettivo è spingersi il più vicino possibile ai Carpazi.  Purtroppo  fu  uno  sforzo  inutile,  i  russi  erano  in  un’ottima posizione e riuscirono a sconfiggere gli austro-ungarici. Questa fu l’ultima battaglia che Giacomo e i suoi compagni combatterono, il 21 marzo il Tenente annunciò loro che il giorno dopo si sarebbero arresi. Egli spiega ai soldati  passo  per  passo,  quello  che  dovranno  fare:  alle  sei  di  mattina spezzare e bruciare le armi, poi saranno bombardati i forti e infine sarà il momento di consegnarsi ai russi. Nella realtà successe tutto come previsto, i russi controllarono che  nessuno fosse armato e  poi  iniziò una  lunga e difficile marcia verso la Russia. Durante il cammino accade un episodio che fa emergere la bontà dei civili. In una pausa concessa ai prigionieri presso un paese, il Beltrami entra in un negozio a comprare del pane, quando esce, un cosacco lo frusta, egli cade tramortito. Alcune donne e il proprietario della bottega lo soccorrono, imprecando contro i russi. Giacomo usa parole forti nei confronti dei cosacchi: li definisce gente“ incolta è senzza nessunaciviltà è senzza Cuore, è brutali”(32). Durante la marcia, Giacomo dimostra ancora una volta di essere un uomo ingegnoso. I prigionieri sono costretti a rimanere tre giorni nello stesso luogo, senza che i russi fornissero loro alcun cibo. Il Beltrami riesce a inventarsi qualcosa di commestibile: “i fregolotti”, una sorta di gnocchi fatti con la sola farina. Tutti prendono spunto da lui, infatti, il giorno dopo, nel paese, non si trova più farina da comprare.
All’arrivo a Taškent in Uzbekistan, Giacomo pensa erroneamente di essere in Siberia, Beltrami resta un po’ di giorni in ospedale, quando esce, la sua compagnia era già partita, egli si dispera: era rimasto senza italiani. In quest’occasione si rallegra del fatto che sono trascorsi quattro mesi in cui non ha dovuto né lavorare, né combattere. Il 28 agosto ricomincia la marcia, dopo  tre  settimane raggiungeranno finalmente Press  spett  (località  non identificata) collocata da Giacomo in Asia. È qui che egli scrive il suo diario, dove troviamo anche alcune preghiere e poesie, tutte dedicate ai prigionieri. Né “Il lamento dei presoneri”, descrive la sua giornata-tipo da recluso.  Sono  costretti  a  lavorare  dalla  mattina  fino  alle  diciotto,  ogni giorno i cosacchi fanno l’appello e la conta dei prigionieri. Giacomo si lamenta del mangiare scadente: “ Che non la mangia gianche un porch”(33) e di essere costretto a dormire per terra, senza paglia. “Verrà col giorno che partiremo, versso il ponente che lasseremo questa gente, E allora potremo gridare viva. L’Austria”(34), egli è ancora speranzoso di tornare nel suo Trentino e per questo si appella anche a Maria e Gesù.
Nell’ultima pagina del suo diario disegna alcuni cannoni con delle matite blu. Queste sono le ultime notizie che abbiamo di Giacomo Beltrami, gli ultimi scritti sono tutto ciò che sappiamo.
È  rilevante cercare di  capire  i  motivi  che  hanno  spinto  Giacomo Beltrami,  ma  con  lui  moltissimi  altri  soldati,  a  stendere  un  diario.  In Trentino sono state ritrovate numerose testimonianze di militari, ma anche di profughi. Bisogna sottolineare che questa regione contava appena il 15% di analfabeti nel 1890, perché fin dai tempi di Maria Teresa l’istruzione elementare era obbligatoria.(35) La lontananza geografica, la mancanza di un destinatario, la  sensazione di  vivere  una  condizione che  uccide  l’io  fa emergere la necessità di imprimere le proprie esperienze sulla carta. Generalmente i soldati iniziano a scrivere i loro diari o quando sono in ospedale o prigionieri, osservando da fuori ciò che è accaduto loro. Si ritengono sopravissuti oppure vinti, in qualsiasi caso dei fortunati usciti vivi dal campo di battaglia. Nel diario stilano un bilancio, di solito sentono di aver fatto il loro dovere. La struttura di queste opere segue generalmente lo schema: partenza, combattimenti in cui si uccide e si viene uccisi, resa e prigionia. Il diario non ha un destinatario esplicito, ma in alcuni casi, come quello del Beltrami, si nomina il lettore, si richiama la sua immaginazione.

(6) Scritto su quaderno a righe (cm 18,2 X22), di fabbricazione russa, l’originale è conservato presso il Museo
Storico di Trento.
(7) Museo Storico Trento, Asp, La Vita gueresca, Giacomo Beltrami, p.51.
(8) Ivi, p.4.
(9) Ivi, p.10.
(10) Ivi, p.12.
(11) Ivi, p.13.
(12) Ibidem
(13) Ivi, p.14.
(14) Ivi, p.15.
(15) Ibidem.
(16) Ibidem.
(17) Ivi, p.17.
(18) Ivi, p.18.
(19) Ivi, p.22.
(20) Ivi, p.26.
(21) Ibidem.
(22) Ivi, p.34.
(23) Ivi, p.42.
(24) Ivi, p.38.
(25) Ivi, p.28.
(26) Ivi, p.29.
(27) Ibidem.
(28) Ivi, p.35.
(29) Ivi, p.36.
(30) Ivi, p.48.
(31) Ivi, p.43.
(32) Ivi, p.46.
(33) Ivi, p.56.
(34) Ivi, p.59.
(35) Antonelli Q., I dimenticati della Grande Guerra: la memoria dei combattenti trentini (1914-1920), Trento, Il margine, 2009, p.11.




PRIGIONIA IN RUSSIA

Dopo la cattura i prigionieri erano divisi in due gruppi: ufficiali e soldati e costretti a raggiungere le retrovie per lo smistamento. Nei diari corre spesso il  ricordo della pietà delle donne galiziane, donavano ai soldati acqua, pane e soprattutto non li guardavano con disprezzo.
Nell’autunno del 1914 iniziarono le trattative fra Italia e Russia per decidere la sorte dei soldati irredenti caduti prigionieri.
Una svolta si ebbe solo quando l’Italia abbandonò la sua neutralità.
L’ambasciatore italiano a Mosca iniziò un lungo percorso volto a rintracciare i prigionieri, dispersi per l’immenso territorio dello Zar.
Essi dovevano fare una dichiarazione d’italianità per poi essere, con modalità incerte, rimpatriati per combattere al  fianco  degli  italiani.
Solo  in  un  secondo  momento  furono  tolti  gli obblighi militari.
La maggior parte dei trentini restò indecisa sul da farsi: le loro famiglie erano ancora disperse nell’Impero Asburgico, non sarebbero potuti  andare  ai  loro  paesi  e,  soprattutto, avrebbero dovuto combattere ancora. Alla fine di giugno del 1916 il Ministero italiano della Guerra creò la Missione militare speciale che doveva recarsi in Russia per portare in Italia il grosso dei prigionieri.
Il percorso deciso era lungo e  tortuoso: partenza da Arcangelo sul Mar Bianco, per poi arrivare in Inghilterra, da qui in Francia e infine in treno fino all’Italia.
Il primo scaglione partì il 14 settembre e arrivò a Torino il 3 ottobre.

La legione Trentina raggruppata ai piedi del monumento a Dante,
10.Nov.1918. Con il tricolore, il figlio di Cesare Battisti – Gigino Battisti

Nel 1917 si costituì a Firenze la “Legione Trentina”, associazione che univa i volontari trentini e che mirava ad aiutare moralmente e materialmente i combattenti trentini nell’esercito italiano.
Essa s’interessò anche della sorte dei prigionieri trentini in Russia e fece pressione presso il Presidente del Consiglio italiano affinché s’impegnasse a farli rimpatriare.
L’associazione ottenne il miglioramento delle loro condizioni di vita e in seguito la graduale liberazione dei reclusi.
Il rimpatrio dei prigionieri fu lungo e discontinuo, si protrarrà fino al 1918.
I primi trentini che tornarono sul suolo natio non furono quelli che presero parte ai ritorni  organizzati, ma quelli che intrapresero personalmente il viaggio di ritorno.
Nell’immediato dopo guerra rimasero in Russia circa mille prigionieri Trentini.




AI MIEI POPOLI

Il  31  luglio  1914  fu  emanato dall’Imperatore dell’Impero Austro-Ungarico l’ordine di “leva di massa”, furono mobilitate subito diciannove classi.
Non vi furono manifestazioni di gioia, ma piuttosto sconcerto e paura, perché non c’era un senso di forte legame con l’Austria.
La leva di massa sconvolse l’economia e il morale della popolazione perché fu una notizia inaspettata. Moltissimi uomini della Val di Gresta, fra i ventuno e i quarantadue anni, abili alle armi, partirono dalle loro case per raggiungere le caserme di destinazione, dette “depositi reggimentali”, presenti a Riva del Garda, Rovereto, Trento, Bolzano, Innsbruck, Hall, Lambach e Wels.
Qui ottenevano la divisa, l’equipaggiamento e venivano affidati o ad una delle compagnie di marcia dei quattro reggimenti dei Tiroler Kaiserjäger o a uno dei tre reggimenti di montagna (Landsschützen o alpini). Ricevevano un’infarinatura generale e sommaria sull’arte della guerra.
Caratteristica distintiva dell’esercito asburgico era la sua composizione plurinazionale, ma questo era anche il suo punto debole.
I soldati venivano mandati a combattere lontani dalla loro regione di provenienza, combattevano per uno Stato  che  sentivano  straniero.
Oltre  che  per  gli  italiani  il  rischio  di diserzione era sempre presente anche per i soldati cechi, serbi e rumeni.

Composizione esercito austro-ungarico nel 1914, su 100 soldati:

25 austriaci;
23 ungheresi;
13 cechi;
9 croati-bosniaci;
8 polacchi;
7 rumeni;
4 slovacchi;
2 sloveni;
1 italiano.(2)

Le   minoranze   difficili,   come   quella   trentina,   erano   affidate  a reggimenti misti, comandati da ufficiali austriaci o ungheresi. I trentini furono oggetto di discriminazione nell’assegnazione al corpo e nella concessione delle licenze, erano considerati dal Comando supremo non affidabili, dei traditori. Dispersi in molti corpi, ai trentini fu impedito di integrarsi con gli altri soldati, questo provocò la nascita di un risentimento nei confronti degli ufficiali. Nel maggio 1915, dopo l’entrata in guerra dell’Italia, la leva fu estesa a tutti gli uomini dai diciotto ai cinquanta anni: altri 20.000 partirono militari. Da questa data in poi i maltrattamenti e le punizioni nei confronti dei trentini divennero più frequenti. Anche a livello di  opinione  pubblica,  l’Italia  era  considerata  un  nemico  tradizionale  e quindi i Trentini, visti con sospetto. Il Trentino, essendo regione di confine politico- culturale- linguistico, inevitabilmente si trovava a essere, con i suoi abitanti, molto differente rispetto alle altre zone dell’Impero. Era per questo facile muovere verso i  soldati tridentini accuse di  tradimento o irredentismo. L’irredentismo è un movimento politico che si propone di riunire all’Italia le terre soggette all’Austria dopo la terza guerra d’indipendenza. Si poneva l’accento sull’importanza di riunire la minoranza italiana alla naturale madrepatria, l’Italia. Le persone che credevano in questa  causa,  nella  maggior  parte  dei  casi  si  arruolarono  volontarinell’esercito italiano, combattendo in prima persona a favore del passaggio del Trentino, del Friuli Venezia – Giulia e dell’Istria al Regno d’Italia.
Cesare Battisti e Fabio Filzi sono gli esponenti più conosciuti dell’irredentismo trentino, anche a causa della loro tragica fine.

(1) Parole d’inizio del messaggio imperiale che accompagnava la dichiarazione di guerra alla Serbia.
(2) Dalponte L., I bersaglieri tirolesi nel trentino 1915-1918, Trento, Casa Editrice Publilux, 1994, p.22.